Se c'era qualcosa che odiavo erano le attività extrascolastiche. Mi costringevano a stare a scuola più del previsto. Non che questo mi dispiacesse, ma ormai avevo altri impegni sulla mia agenda. Avevo cose migliori da fare che sprecare il mio pomeriggio chiusa in quelle mura. In fondo, la situazione non sarebbe stata migliore a casa. Casa- scuola, la scuola era la mia casa: questo è uno dei difetti di dover essere "discendente dei Ruwig". Se fosse stato per me, avrei evitato questa discendenza, tanto non ci avevo guadagnato nulla di buono, nè ai miei occhi nè a quelli della mia famiglia.
Come se non bastasse, mi toccava perfino passare quel tempo sprecato in palestra. Odiavo la palestra e tutte le attività fisiche. Non ero capace, ecco. Qualsiasi cosa andava bene, la facevo volentieri con tutta la buona volontà del mondo, ma non fatemi correre! Odiavo qualsiasi cosa fosse legata all'attività fisica: la tuta da ginnastica, le scarpe da tennis, il sudore. Qualsiasi cosa. Avrei volentieri cambiato quell'ora con qualcosa di più interessante, anche un corso di botanica, se solo avessi potuto. L'educazione fisica mi era stata imposta.
Dai Kim, in fondo non è così male. E ti farà bene.
Mi farà bene? Ma stiamo scherzando? Ciò che mi faceva bene era studiare, leggere, scrivere e fare shopping. Di certo non poteva farmi bene sudare e stare in mezzo a una decina di ragazzi puzzolenti! Certe volte mi chiedevo se le persone, i miei genitori soprattutto, ci vedessero chiaro. La risposta giungeva al mio orecchio ogni giorno sempre più precisa: no.
Come se tutto ciò ancora una volta non bastasse, ero in una scuola dove nessuno si faceva male. Avevano tutti i loro poterucci cari, nessun problema. Sembrava una presa in giro solo trovarmi lì con qualcuno di loro. Io mi sbucciavo le ginocchia una volta alla settimana - già, perchè era molto raro che non cadessi - e loro, invece, correvano come delle gazzelle, perfetti. Chi invece era più goffo, magari non poteva nemmeno ferirsi. Altri addirittura si curavano le ferite in un secondo.
Era davvero straziante. Ad ogni modo, costretta o no, volente o nolente, mi trovavo in palestra. Correvo, con la mia andatura goffa cercando di riconoscere un viso familiare. Familiare, nel vero senso della parola, intendo. Mi serviva qualcuno con cui parlare. Conoscevo tutti quei visi di vista, ma non avevo nulla da dire loro.
Un quarto d'ora di corsa era troppo per i miei standar. Ero praticamente morta. Alcuni di loro - quelli speciali - non avevano neppure il fiatone.
Va bene tutto, ma non mi piaceva sentirmi strana, non mi piaceva sentirmi goffa. Decisi quindi che quel giorno,anche se mi avessero trascinata a forza sul campo da pallavolo, io non avrei più mosso un dito. Mi andai, allora, a sedere su una delle panchine, approfittandole per allacciare i lacci ribelli di una scarpa e per riprendere fiato.E poi rimasi lì, con intenzioni ben chiare. Avevo dicannove anni, non due. Non avevo bisogno che altre persone decidessero per me: io non mi sarei mossa da lì.